La scrittura dalla passione alla performance
Uno dei problemi più ricorrenti, quando mi occupo dell’editing di un romanzo, è la paura dell’autore. Io la chiamo ansia da prestazione, perché è un’insicurezza paralizzante, che blocca l’espressività e mi costringe a un lavoro che va oltre la correzione del testo, sconfina nel campo psicologico. Certo, un lettore comune avrebbe difficoltà ad accorgersi di queste paturnie. Ma io no. Le percepisco tra le righe, anche quando sono nascoste dietro una forma impeccabile e una perfetta padronanza della tecnica. Anzi, di solito questi due aspetti sono portati allo stremo e curati in modo maniacale. Lo scrittore si illude così di nascondere le proprie fragilità. Ma il testo non ne guadagna, perché le competenze individuali sono messe in campo con scarsa naturalezza, diventano oggetto di sforzi mentali da supereroe che penalizzano l’energia comunicativa del testo. La mia valutazione dell’opera, quindi, è fortemente condizionata. Non riesco a considerare un romanzo pronto per la pubblicazione, finché tutta questa “fuffa” non è stata grattata via.
Sembra quasi impossibile, oggi, riuscire a scrivere senza che la mente sia concentrata sul giudizio di un editore, di un lettore o, peggio ancora, del proprio super-ego, quel bigotto in giacca e cravatta che continuamente dice: “no, così non va bene”. Eppure, all’inizio non era così. Avete incominciato a scrivere perché vi piaceva. Non ve ne fregava niente della progettazione, del punto di vista, dei cliffhanger. Scrivevate racconti ingenui, pieni di difetti, ma impregnati della vostra gioia di vivere, e in alcuni casi più intensi dei vostri brani più maturi. Dopo la scuola, dopo il lavoro, prendevate in mano un quaderno, una penna, e vi trovavate a sciogliere le vostre idee sulla carta, senza alcuna aspettativa. Sentivate un calore forte, all’altezza del petto. Era la vostra energia creativa che si sprigionava, che demoliva tutti i blocchi e le tensioni per potersi esprimere in completa libertà. Non ve ne fregava niente di essere bravi. Vi bastava soltanto essere. Voi stessi. Senza timori. Senza vergogna. Senza vanagloria. In un clima di completa, assoluta spontaneità. Poi, qualcosa è cambiato. Con il passare del tempo, la creatività fine a se stessa è diventata, ai vostri occhi, un vezzo che non potete più permettervi. Avete sentito la necessità di dimostrare agli altri che voi fate sul serio, con tutto ciò che ne consegue: obiettivi megalomani, fretta di vedere il proprio romanzo nelle librerie, mito della pubblicazione, necessità di un riconoscimento sociale.
In poche parole, avete trasformato la scrittura in una performance.
Questo vi ha tolto il sonno, la passione, la gioia. Vi ha reso fragili e insicuri. Vi sentite ossessionati dalla vostra personale idea di perfezione, e non riuscite a rispecchiarvi nelle vostre parole. Perché quelle parole, le tematiche che affrontate, sono state scelte per piacere agli altri. Questo E vi ha portato una paura fottuta di non essere all’altezza delle aspettative. Le vostre, e quelle del sistema. In poche parole, siete stati risucchiati dal paradigma sociale che caratterizza la nostra epoca. Il principio dell’individualità espressiva teorizzato da Bauman incontra dei limiti oggettivi nella struttura stessa di una società che punta più all’utilità che al piacere, e cerca di trasformare gli hobby in una fonte di guadagno o, peggio ancora, in un’assurda competizione. Il confronto con il pubblico e con la società nel suo complesso crea ansia. Anche avere un obiettivo crea ansia, se non lo si sa gestire con lucidità o se, per raggiungerlo, ci si sente costretti a rinunciare a un lato importante del proprio essere. Ci si sente, appunto. Perché questa è un’altra paturnia, un’altra convinzione limitante che ogni giorno alimentiamo con i nostri pensieri, ma che non ha alcuna ragion d’essere. Il lavoro può anche non essere costrizione e sofferenza e non obbligarci ad aderire a un modello sociale. Può essere perfettamente in linea con la nostra personalità.
Tutto dipende da come decidiamo di affrontarlo.
Per esemplificare il concetto di scrittura come performance, vi racconto una mia esperienza personale.
Molti di voi sicuramente ricordano Appunti a Margine. Era un blog nato solo per esprimere me stessa e venire fuori da un periodo nero della mia vita ma, nel giro di pochi anni, senza alcuna strategia, ha raggiunto una media di 1000 visitatori al giorno. Poi, quando ho chiesto il part-time all’AdF per iniziare a lavorare in proprio, ho trasferito baracca e burattini su questo sito, più evoluto dal punto di vista tecnico e realizzato grazie al supporto e alla consulenza di un professionista, Rodolfo Cioni.
Mi emozionavo, su Appunti a Margine. Mi divertivo. Però, dopo il mio trasloco virtuale, mi sono sentita obbligata (dal mio cervello, non da altri) ad abbandonare la mia scrittura scanzonata e informale, per adeguarmi a un altro ruolo, quello della professionista. Libertà creativa e autopromozione mi sembravano quasi in conflitto. Quindi, pur avendo gestito nel corso degli anni diversi blog per conto terzi, come copywriter, avevo difficoltà a usare gli stessi accorgimenti sui miei articoli h2, h3, elenchi puntati… Non mi viene spontaneo inserirli… Io, quando scrivo per me stessa, seguo il flusso di coscienza. Inoltre, sono abituata a dare un taglio personale ai testi firmati da me, il che li rende a volte poco posizionabili su Google. Credevo inoltre che il mio “stile naturale” (non quello che “creo” per professione a seconda delle esigenze) fosse poco adatto per il web, e che le mie opinioni personali potessero risultare poco interessanti per gli autori in cerca di un editor. Questa convinzione è una stupidaggine, ora me ne rendo conto. Eppure passavo ore a guardare la pagina bianca. Ore. Poiché mi obbligavo a trattare argomenti cliccabili, dopo qualche mese mi sono arresa. Ho smesso di aggiornare il blog, con la sola eccezione dei momenti in cui mi sentivo particolarmente ispirata. Ma questo non era giusto. penalizzava me, e il mio lavoro.
Dopo l’estate, ho parlato con San Rodolfo delle mie difficoltà, e lui mi ha aiutato a trovare una strada che fosse maggiormente nelle mie corde. Entrambi concordavamo sul fatto che la qualità e l’approfondimento dei contenuti che propongo sono un punto di forza. Così, abbiamo creato una nuova categoria, destinata a ospitarli. Ad essi, si affiancheranno articoli più tecnici, ma sempre nelle mie corde. Del resto, i miei testi migliori sono quelli che mi coinvolgono a trecentosessanta gradi, con la testa e con le emozioni. Forse sono meno “posizionabili” e nazionalpopolari di altri, ma se vengono scritti con passione portano ugualmente un risultato: la stima e il rispetto dei miei lettori. Quei lettori che poi, non appena hanno un libro pubblicato, mi chiameranno per editarlo, perché avranno percepito tutto il mio amore per i libri e per la narrativa. Ecco. questa soddisfazione vale più di diecimila click. È ciò che mi fa amare profondamente il mio lavoro.
Capite cosa intendo?
Se volete scrivere testi di qualità, dovete sganciarvi dalla logica della performance, per lo meno quando vi trovate in fase creativa. Durante la revisione, potete concentrarvi maggiormente sul risultato, ma sempre con atteggiamento costruttivo, senza cadere vittima di aspettative paralizzanti o fobie sociali. E, soprattutto, senza mai occultare la vostra personalità e la vostra vocazione.
Citando un mio vecchio articolo di Appunti a Margine:
La scrittura come performance è diversa dalla scrittura come processo. È qualcosa che si fa, non c’entra nulla con ciò che si è. Ma se percepiamo una forza creativa che vibra dentro di noi e ci porta a esprimere le nostre emozioni, a condividere una visione del mondo, allora siamo fregati. Non possiamo più fingere: l’essenza di ciò che siamo chiamati a creare è eterna e trova la propria realizzazione solo nell’espressione autentica delle parole che scriviamo e delle azioni che intraprendiamo.
Avete capito?
Il focus deve essere il vostro intento comunicativo.
Questo intento comunicativo, a sua volta, dev’essere in linea con la vostra personalità.
Sganciarsi dalla logica della performance, pertanto, significa accettare questi tre principi.
1 – La scrittura nasce come espressione del proprio vero io.
Questa è prerogativa assoluta di ogni forma d’arte. Il che non implica mettere in secondo piano la tecnica e la forma ma fare in modo che queste siano al servizio dell’espressione di sé, non il contrario.
2 – Il nostro io interiore dev’essere allineato al nostro io esteriore.
Ciò che decido di mostrare agli altri deve essere coerente con l’idea che ho di me stessa, con i miei principi e con i miei valori. Se questa comunione non avviene, significa che sto recitando un ruolo, che sto usando la scrittura come una maschera. E questa è la prima causa dell’ansia da prestazione.
3 – Le storie che raccontiamo devono essere frutto di una scelta consapevole.
Molti autori scelgono argomenti che vanno di moda, o che ritengono “importanti”. Il senso comune letterario, ci ha insegnato a distinguere tra tematiche di serie A, e tematiche di serie B. Ma un romanzo ben riuscito, nasce dall’inarrestabile desiderio di raccontare una storia che, prima di essere impressa nella carta, risuona con forza dentro il cuore del suo autore. Raccontarla è quasi una necessità.
Per concludere, Julia Mc Cutchen, nel suo saggio “Scrittura consapevole”, scrive:
Noi Scrittori Consapevoli abbiamo bisogno di rilasciare in particolare le nostre convinzioni riguardo all’autore che pensiamo di dover essere e agli argomenti di cui pensiamo di dover scrivere. Abbiamo bisogno di seguire la nostra vocazione interiore e di scrivere ciò che allieta davvero il nostro cuore, per poi condividere la nostra opera con il pubblico in modi che davvero siano autentici per la nostra anima.
Il che obbliga lo scrittore a porsi tre quesiti, anch’essi già proposti in passato su Appunti a Margine.
Chi sono io, al di là della performance?
C’è coerenza tra la mia identità e ciò che scrivo?
Qual è la vocazione della mia scrittura?
Provate a rispondere. Con onestà.