Gli scrittori non fanno cose utili
La nostra epoca ha un rapporto complicato con la cultura. Non voglio addentrarmi ora nelle cause di questo disastro, altrimenti scriverei un saggio di sociologia, non un articolo sulla scrittura. Tuttavia noto che al giorno d’oggi si tende a denigrare ogni attività che non porti una monetizzazione immediata, o che non offra un risultato materiale, visibile e tangibile. Si può quindi rispettare un medico, perché guarisce le malattie (mai come Google, però). Si può rispettare un ingegnere, perché costruisce strade. Ma gli scrittori? Gli operatori culturali? No. Loro sono feccia, per quelli che si autodefiniscono “laureati all’università della strada”, perché gestiscono un materiale di lavoro che non si può vedere, non si mangia, quindi è come se non esistesse. Oggi le persone cercano un piacere immediato. Tutto ciò che non strappa una risata come un video su youtube, o che non ha un’utilità pratica, è ritenuto un’attività di serie B. Ho sentito denigrare persino lo yoga: “non fa dimagrire, allora a cosa serve?”. A invecchiare bene. Come i libri. E scusatemi se è poco…
Un giorno, ho visto un adulto redarguire un bambino: “A cosa ti serve leggere? Non è che poi diventi uno snob?”. E io, che ho imparato a leggere a un anno e mezzo, sono inorridita. Perché, a pensarci bene, anch’io da ragazzina ero un po’ emarginata. Quella strana. Quella che scriveva i temi direttamente in bella copia per non perdere tempo a ricopiare, e riempiva quattro fogli protocolli in meno di due ore. Quella che in quinta superiore si era fissata che voleva arrivare all’esame di maturità con dieci di italiano, e ci riuscì. Al liceo classico. Però in matematica mi bastava un sei stiracchiato, che a volte diventava sette nelle ultime interrogazioni. Perché non ho mai ambito a diventare onnisciente. Mi basta dedicarmi a ciò che amo. Ai libri, all’arte, alla letteratura, devo tutto ciò che sono. E tutto ciò che so. E sono fiera, di ciò che sono, nonostante la mia ipersensibilità e il senso di inadeguatezza che ogni tanto mi stringe la gola. E sono fiera anche di ciò che so, per quanto sia poco rispetto all’immensità dello scibile umano. Ne sono fiera, perché rappresenta la base del mio essere. Tutti i miei comportamenti, i miei valori, le mie idee, le mie opinioni sul mondo dipendono da ciò che ho imparato in questi trentotto anni di vita: studiando, leggendo, interagendo con le persone, ascoltando le loro storie, viaggiando e prediligendo tutte le attività che potessero aiutarmi ad ampliare i miei orizzonti mentali. Soffro quindi parecchio, quando vedo che i miei sforzi non solo non sono compresi, ma addirittura vengono considerati il vezzo di una che “non ha un cazzo da fare”.
Sì, mi hanno detto anche questo.
Per onestà intellettuale, devo ammettere che chi mi rispetta c’è. In ambito editoriale, non ho mai avuto particolari problemi. Nel corso degli anni mi sono confrontata con diversi scrittori affermati o emergenti, preparati quanto o anche più di me: mai nessuno di si è rifiutato di seguire un mio consiglio editoriale, perché spesso mostravo errori dei quali non si erano resi conto. Altre volte, li spingevo a riflettere su aspetti della loro opera che non avevano considerato. A volte c’erano punti di vista diversi, ma se ne discuteva, sempre nel rispetto della professionalità dell’altro, che veniva considerata un dato indiscutibile. Negli altri settori, invece, il rispetto dipende dall’intelligenza e dalla profondità di chi ho di fronte. Ho lavorato, e ancora lavoro, con diversi tecnici (ingegneri, architetti… quelli che fanno cose utili, insomma!) agenti immobiliari e professionisti di vario tipo, scrivendo per loro o con loro. La maggior parte delle volte si è trattato di esperienze professionali positive perché, a prescindere dal livello gerarchico, queste persone riconoscevano la mia esperienza in un ambito che non era di loro competenza. Unendo le teste, a volte venivano fuori risultati eccezionali. Ma a volte mi sono imbattuta in soggetti che amavano lisciarsi le penne e guardarmi dall’alto al basso per i motivi più disparati: percorso di studio, età, genere, e così via. E se esco dal mondo del lavoro per calarmi nella vita quotidiana o, peggio ancora, nella realtà dei social network…beh… a volte mi vien voglia di rifugiarmi in cima a una montagna e morire da eremita.
Premessa: io non credo che il titolo di studio renda una persona superiore a un’altra e credo, in certi campi, anche nel valore dell’autodidattica. Però, porca miseria, non si deve nascondere la testa sotto la sabbia. Mai. Studiare serve ad acquisire determinate competenze, mi pare ovvio, altrimenti non avrebbe senso trascorrere anni sui libri, spendere migliaia di euro e scrivere trecento pagine di tesi per non avere nulla in mano. Tali competenze, poi, devono essere mantenute, conservate e aggiornate. Se non si vuole che arrugginiscano, non si deve mai smettere di studiare o – come nel mio caso – di esercitarsi. C’è chi lo fa, e chi no. Però, non credo di essere spocchiosa se dico che un laureato in un determinato settore ne sa di più di chi non lo è. Io, di letteratura, ne so di più di chi non ha mai letto un libro in vita sua, e di certo non pretendo di insegnare a “quelli che fanno cose utili” come si costruisca un viadotto. Mi pare così ovvio, che non dovrei nemmeno scriverlo. Eppure, ogni giorno, mi scontro con quelli che…
… “Studiare non serve a niente perché con la laurea non fai i soldi.”
… “Chi se ne frega se è scritto male: si capisce.”
… “Non c’è bisogno di “essere studiati” per saper scrivere.”
… “Scendi dal piedistallo, maestrina!”
Va bene. Quindi questo dovrebbe far pensare che, se una persona è appassionata di un argomento, questo è sufficiente per darle autorità in un determinato campo. Invece no!
Greta Thumberg: “Il pianeta si sta surriscaldando.”
“Ma cosa ne sai, ragazzina, lascia parlare gli esperti!”
Esperto: “Il pianeta si sta surriscaldando.”
“Ecco, è arrivato il professorone!”
Ora dico: noi scrittori siamo tutti dei fuori di testa, ma per lo meno ne siamo consapevoli. Chi invece trasforma la propria ignoranza in un vessillo, non è in grado di rendersi conto delle proprie contraddizioni. La sua mente è spesso dominata da un meccanismo stimolo-risposta. Sono quelli che leggono la parola “immigrato” su Facebook, e subito sbottano: “vergoniaaaaaaaaaaaaaaa!1!”
Ma chi ha voglia, di discutere con questi?
Andiamoci a nascondere, dai. Trasformiamo la cultura in un fatto intimo e privato come la politica, la religione e il ciclo mestruale. Facciamo come nel romanzo Il censimento dei radical-chic. Creiamo un bel comitato di semplificazione del linguaggio e iniziamo a censurare tutte le parole troppo difficili per la massa. Rinchiudiamo tutti i letterati in una gabbia, e obblighiamoli a leggere poesie ad alta voce, sotto gli sguardi di scherno della folla. Aboliamo le norme editoriali, che intanto non servono a nulla. RicominciamoAskrivereKMaiTempiDegliSMS. Perché io, sinceramente, sono stufa di essere insultata se dico che usare le emoji nelle e-mail ai clienti è poco professionale :), che decine…di puntini…di sospensione…non servono…, che SCRIVERE MAIUSCOLO CON TRE PUNTI ESCLAMATIVI!!!! non è elegante, mi dà un po’ fastidio. Come mi dà fastidio sentir dire che ciò che mi piace (un testo scritto correttamente e ben formattato) non è importante. Ognuno ha la propria professionalità. Se il mio parrucchiere mi vede girare per strada con i capelli per aria mi fa un mazzo tanto. Se fumo, il mio dottore, idem. E se vado a un concerto, com’è successo tante volte, con un mio amico musicista, lui nota stonature delle quali non mi accorgo. Eppure, non lo riempio di parolacce se mi spiega perché la band non gli piace. Non gli dico “cosa ne sai tu?”. Al limite, posso evidenziare che a me la canzone ha trasmesso delle emozioni, anche se non è perfetta, e ascoltare la sua opinione in merito, con umiltà. Credo di saper riconoscere che il parere di chi ho di fronte conta più del mio. E ancora non riesco a capacitarmi del fatto che gli altri non sappiano usare altrettanta premura verso di me. Mi domando perché.
Sarà perché sono donna, forse?
Può essere. Già il letterato è denigrato di per sé. Se è donna, ancora di più. Perché si sa: nell’immaginario delle masse, lo scrittore è uomo. Le donne, scrivono storie d’amore. Le signore anziane, i gialli o i pornosoft stile “Cinquanta sfumature di grigio”. E io? Io in questo periodo ho paura, a scrivere. Sul serio. Sarà per questo che preferisco correggere i romanzi altrui, senza mettermi troppo in gioco.
E a voi come va, con quelli che non sanno ma te la spiegano lo stesso? Vi viene mai voglia di sbagliare i congiuntivi per piacere di più alla gente? O di mettervi a fare cose utili?
C’è un diffuso pregiudizio anticulturale.
C’è sempre stato un pregiudizio anticulturale, ma era temperato dal fatto che del medico, speziale e notaio avevi bisogno, e qualcuno ricchissimo aveva bisogno pure del poeta del pittore o addirittura dello scultore e dell’architetto. I musicisti oscillavano.
Poi c’è stata l’enorme espansione economica e accanto alle sei o sette arti liberali sono comparse quelle spiccatamente tecniche, molte e molte di più.
I sapienti antichi – esemplificati dal filosofo – hanno reagito in tre modi.
Dapprima negando che ciò accadesse, con una piccola percentuale che invece cavalcava gli accadimenti. Poi si sono opposti cercando ogni controriforma possibile, infine hanno sancito che è una non vittoria che tanto il vero sapere sarà sempre il loro.
I tecnici – basiti – hanno reagito all’inizio, poi hanno smesso di angustiarsi semplicemente portando il costo orario fatturabile da venti a duecento euro l’ora e oltre, con queste tariffe gli basta attendere.
C’è stato un ultimo guizzo nel dopoguerra del Novecento, ma gli umanisti si sono autodistrutti col propendere decisamente a fare il guru, riecheggiano ancora oggi le boiate di un colto onest’uomo come Moravia, quando abboccava alle lusinghe del tuttologo (tosto imitato dal bravo Camilleri che non ce l’ha fatta a non dire la sua sul genere umano), per non dire delle assurdità uscite da pittori, registi e teatranti che dicevano la loro su qualsivoglia argomento dello scibile per tutti gli anni ’60 e ’70.
Chiaramente oggi si è andati ben oltre una ragionevole rivalsa, ma non credo la tendenza si invertirà a breve, a meno che i letterati convertitisi in massa a sceneggiare le serie di Netflix, non si rendano conto che occupare le posizioni chiave dei fatturati mediatici è una strategia seria. anche se a lungo termine.
Se poi ci aggiungiamo che in massa – tranne poche eccezioni – gli intellettuali italiani sono stati filogovernativi anche quando i Savoia spremevano ogni lira possibile di tasse, poi colonialisti, poi interventisti nella 1GM, poi fascisti, poi entusiasti per la 2GM, poi antiamericani, filosovietici addirittura filocinesi, filoarabi antisionisti, contro il boom economico… diciamo che se c’è pregiudizio – non ne hanno azzeccata una, tranne pochi intelligenti e perspicaci – è anche per colpa loro.
Grazie Massimo! 🙂
In modo brutale ti dico : me ne infischio di quello che pensano o dicono di me gli altri. (E io ho lavorato in ambienti dove se non parlavi di calcio sempre e comunque, eri strano. Figurati il resto). Perché so che alla fine vincerò io. Anzi: ho già vinto 🙂
Sì, Marco, hai vinto. 🙂
Anzi, abbiamo!
Sbagliare i congiuntivi per non sembrare snob, no! Semmai perché in certe espressioni si è instaurata l’abitudine all’indicativo, perciò il congiuntivo suona fesso anche al mio orecchio. Quanto al fare cose utili, ti dirò che sto lasciando andare ogni velleità di diffusione e scrivo quello che ho voglia di scrivere. Tanto scrivere narrativa, come scrivo io, è un divertimento, non una professione. Poi una professione può diventarlo, in certi casi; ma sono così rari che non vale la pena di dedicarci nemmeno un pensiero.
Ciao Grazia. Quella sui congiuntivi era una battuta, non lo faccio nemmeno io. Ho voluto esagerare un po’ per mettere in evidenza la tendenza a nascondere la propria cultura. Poi, ti dirò, il concetto di utilità è molto ampio… Se un libro mi fa divertire, è già utile di per sé. 🙂