La ricchezza del linguaggio
La ricchezza del linguaggio è spesso considerata un vezzo intellettualoide, un dettaglio trascurabile. Molti autori tendono quindi a preoccuparsi più di soddisfare la propria urgenza espressiva che di scegliere parole efficaci, coerenti con il messaggio che desiderano comunicare. Creatività e padronanza della lingua, però, sono due aspetti che devono mantenersi in equilibrio. Se ciò non accade, la voce dell’autore risulta smorzata, si ha l’impressione di leggere il tema di un ragazzino delle scuole medie.
Come scrive Alessandro Perissinotto nel romanzo Il silenzio della collina, infatti:
Se un pittore ha solo tre colori sulla sua tavolozza, anche mescolandoli insieme non potrà dipingere un tramonto sul mare, o un bosco d’autunno. Un uomo con poche parole in testa è come un pittore con pochi colori, il mare e il bosco li vede anche lui, ma non può rappresentarli.
Questo problema esiste. È reale. Nessuno può saperlo meglio di me: ogni volta che leggo una bozza sono costretta ad accanirmi sempre sulle stesse parole. Per esempio, alcuni aggettivi subiscono abusi da anni: bello, brutto, splendido, magnifico, terrificante. Sono comodi ma vuoti, non trovate? Non parliamo poi dell’immancabile “cosa”. Vado a fare una cosa. Ti devo dire una cosa. Oggi è successa una cosa bella. No, no, no, e poi no. La “cosa”, nella maggior parte dei casi, può essere sostituita da un termine più specifico. Se la mente non è in grado, da sola, di chiamare a sé un vocabolo efficace, significa che ha perso il contatto con il mondo della narrazione. Ma scrivere è come aprire una Matrioska. Bisogna scendere in profondità per schiodarsi da quella pochezza dilagante che ci sta appiattendo le corde vocali. “Il prato è pieno di fiori”, leggo. Okay, ma quali fiori? Di che colore sono? Sapresti evocare il loro profumo? Dare attenzione ai dettagli non significa dilungarsi. A volte, basta sostituire una parola, e l’intera scena diventa più vivida.
Anche gli avverbi in “mente” sono sempre lì, a portata di mano, soprattutto quando non si è in grado di descrivere un’azione (la accarezzava dolcemente), quando non si sa evocare un’emozione (era semplicemente deluso), o quando non si è in grado di focalizzare lo scorrere del tempo (camminava lentamente). Nell’ultimo romanzo che ho editato, con il “trova” sono riuscita a scovarne quarantadue in poco più di dieci pagine. Eppure, spesso non servono. Non sono rafforzativi, come pensa il senso comune. Anzi: l’unico aspetto che rafforzano è sicuramente la pesantezza della frase. Avete visto?
Ora vi pongo una domanda.
Secondo voi, la ricchezza del linguaggio è questione di competenza?
In parte direi di sì: la ricchezza del linguaggio si acquisisce leggendo ed esercitandosi nella scrittura. Ma questo non basta. Possiamo conoscere miliardi di parole, ma se siamo schiavi dei nostri schemi ricorreremo sempre alle solite dieci. Dobbiamo quindi imparare a osservare il mondo circostante e ad ascoltare le nostre sensazioni perché la scrittura, come la meditazione, non è una performance ma un processo.
Quando il chiacchiericcio interiore tace, e noi siamo ben radicati nella storia che vogliamo raccontare, l’energia creativa è libera di fluire portando con sé nuove emozioni, nuove idee, nuovi concetti. Così, ci ci troviamo per le mani parole che non sapevamo nemmeno di conoscere. Erano addormentate in un cantuccio della nostra memoria a lungo termine. Le abbiamo lette o ascoltate tanti anni fa, perché qualche grande scrittore del passato ha fatto in modo che giungessero fino a noi. Poi, le abbiamo rimosse. E ora l’ispirazione le ha risvegliate. È così che funziona, quando testa e cuore collaborano. Ma molti giovani autori non hanno la pazienza di attivare questa sinergia, sono proiettati verso uno scopo che, per chi ambisce ad accrescere la propria professionalità, dovrebbe essere secondario: la pubblicazione.
Molti individui racchiudono in sé un talento latente, ma pochi si danno il tempo per svilupparlo. Sbattere il proprio romanzo su Amazon è per loro una priorità assoluta. Se non ci riescono si sentono inutili. Nella società di oggi, infatti, tutto ciò che non circola in rete è come se non esistesse.
Questo, se ci pensate, è molto triste. Il web dovrebbe infatti aiutarci ad ampliare le nostre conoscenze, non renderci insicuri o, addirittura, spaventarci.
Sì, avete letto bene: spaventarci.
I social hanno sdoganato la libertà di pensiero, mettendo in secondo piano la qualità delle opinioni. Come diceva Umberto Eco, il parere di un premio Nobel vale quanto quello di un imbecille.
Ecco perché, a molti autori, la ricchezza del linguaggio fa paura.
Ci sono scrittori che posseggono un vocabolario variegato ma non lo utilizzano per scelta. So che molti di voi non mi crederanno, perché questa decisione va contro ogni buon senso. Sembra ridicola. Infatti lo è. Però si tratta di un’agghiacciante verità. Ci sono autori che decidono di sminuirsi per non ricevere recensioni negative e non essere insultati dall’hater di turno. Anziché giudicarli, provate a comprenderli.
Viviamo nell’era della cosiddetta “ignorantocrazia”. Ogni giorno migliaia di persone brandiscono la tastiera dando del radical chic a chiunque azzecchi un congiuntivo. Fino a cinquant’anni fa avere un figlio laureato era motivo d’orgoglio; oggi invece siamo in balia di individui che sostengono con malcelata spocchia di aver studiato all’Università della Vita. Quindi denigrano non solo chi ha un titolo di studio, ma anche chi ha maturato, grazie alla lettura e a un impegno quotidiano, la capacità di esprimersi al di sopra dei cliché oggi dominanti: “Ecco, è arrivato il professorone! Chi ti credi di essere?”, sbraitano addosso al povero scrittore. E lui, per non avere rotture di scatole, cerca di ricalcare nei propri libri lo stesso stile della rete. “Voglio utilizzare un linguaggio semplice”, dice, come se volesse giustificarsi, dopo che ho depennato l’ennesima “cosa”. Semplice, però, non significa semplicistico: su questo concetto non smetterò mai di impuntarmi.
Coltivate la ricchezza del vostro linguaggio, ragazzi!
Fate in modo che la cultura torni a essere un valore collettivo. Dobbiamo evitare che le profezie distopiche presentate nel romanzo Il censimento dei radical chic si realizzino. E dobbiamo capire che livellarci al ribasso non è il metodo più efficace per sopravvivere a questa società omologante. Essere se stessi, nella scrittura come nella vita, alla lunga paga sempre. Forse non renderà miliardari, ma almeno aiuta a dormire in pace, con la consapevolezza del fatto che si è agito secondo coscienza.
Seguire i consigli che vi ho dato in questo articolo non solo vi aiuterà a migliorare nella scrittura, ma vi darà anche più fiducia in voi stessi e nella vostra capacità di ascoltare le vibrazioni della realtà, senza essere imprigionati entro le solite, limitanti sovrastrutture. So che non è facile cambiare da un giorno all’altro il proprio approccio nei confronti di un testo e del mondo circostante. Però, si è sempre in tempo per iniziare un nuovo percorso. Qualche consiglio, già ve l’ho dato: leggete, osservate. E poi, cercate di descrivere la vostra vita quotidiana con parole sempre nuove. Non c’è bisogno che le mettiate nero su bianco. Arricchire il proprio dialogo interiore è già di per sé un buon metodo per scovare nuove modalità espressive. Se questo non basta, c’è sempre lo strumento del “trova”: dopo la prima stesura, andate alla ricerca dei vostri chiché, della “cosa”, degli avverbi in mente e di tutte quelle locuzioni che credete possano penalizzarvi. Lo farò anch’io proprio ora, sapete? Il miglior maestro è infatti colui che non smette mai di imparare. Anche chi ha esperienza può esplorare nuovi mondi. Anzi: deve farlo. Senza la volontà di aprirsi a nuove scoperte, non ci può essere alcuna evoluzione. Quindi, non sentitevi mai arrivati!
Io direi che dipende anche da quello che vuoi scrivere. Insomma, se scrivi un romanzo tutto azione e niente sentimenti, ovviamente devi essere molto più diretto e badare meno agli abbellimenti, altrimenti l’effetto si smorza; stessa cosa al contrario, con un romanzo introspettivo e molto descrittivo che non può aver un linguaggio troppo scarno, se no diventa sterile. Per quanto mi riguarda, anche se c’è molta azione nelle mie storie cerco di non essere troppo semplicistico, ma tendo comunque a evitare paroloni anche un pelo antiquati.
Comunque, a parte questo ti do ragione su certi termini troppo generici, come “cosa”: anche io tendo a infilarne parecchi quando, come dico io, “entro nel flusso” della scrittura. Per me la fase di revisione serve proprio a questo, tra le altre cose: a eliminare i tanti cliché che so di avere e a rendere il testo più ricco 🙂 .
Come ho spiegato nell’articolo, semplice non significa semplicistico. Allo stesso modo, usare un linguaggio ricco non significa scrivere frasi lunghe, che rallentano il ritmo. Una scena di azione può usare parole efficaci ed essere incisiva ugualmente.
Per scovare i cliché (scappano a tutti, credimi…) il “trova” è fenomenale. 🙂
Ciao Chiara, mi piace come hai sviscerato il discorso sull’importanza di non scrivere e comunicare in modo banale e troppo terra terra. Ho notato anche io che molta gente sminuisce la propria conoscenza di linguaggio per essere alla portata di più persone. Forse lo faccio anche io in modo inconsapevole. Ma è una situazione davvero pessima. In questo modo si dà maggior potere al trash e a chi fa della superficialità il suo pane quotidiano. Viva la ricchezza di linguaggio!!
Ciao Veronica, benvenuta. Mi fa molto piacere che il mio articolo ti sia piaciuto. Pensa che tante volte, nel mio lavoro di editor, mi è capitato anche il contrario, ovvero mi sono trovata a correggere frasi troppo pompose. Ogni forzatura, secondo me, è deleteria. Un lettore capace non solo di leggere ma anche di cogliere le “energie sottili” del testo, comprende tutto. Comprende se un autore cerca di darsi un tono, se si sminuisce o se vuole fare il passo più lungo della gamba, scrivendo un libro quando non ha le competenze necessarie. Quindi, bisogna essere naturali, ma anche darsi da fare per migliorarsi. 🙂
A rileggerci <3