Come si esce dalla zona comfort?
I lettori che arrivano da Appunti a Margine conoscono già la mia storia perché hanno seguito la lunga crisi professionale che mi ha attanagliata per anni, prima che decidessi di rimettermi in gioco e trasformare la mia passione in un secondo lavoro. Il rito di passaggio tra queste due diverse fasi della mia esistenza è stata la decisione di chiedere il part-time all’azienda nella quale ero (e sono tutt’ora) impiegata. Non fu facile lasciare una routine che, per quanto mi facesse soffrire, mi garantiva anche una certa sicurezza. Ci rimuginai da novembre del 2016, fino al aprile del 2017. Poi, in un solo istante di determinazione, dopo un episodio particolarmente spiacevole, scrissi la mia richiesta e la consegnali alla Direzione del Personale. Il tutto in meno di mezz’ora. Perché, all’improvviso, avevo capito di non avere più dubbi.
Il 31 maggio 2017 è stato il mio ultimo giorno di lavoro full-time in azienda. Domani saranno trascorsi esattamente due anni, e non potrei mai tornare indietro. La vita che ho costruito è una vita che ho scelto, ed è per questo, forse, che molti miei amici e parenti mi ritengono una persona che sa cosa vuole. Mi sono sempre interrogata sui miei desideri, ma non sempre sono riuscita a difenderli con sicurezza. Non subito, per lo meno. Se osservo il mio passato, mi rendo conto infatti che ogni cambiamento importante della mia vita ha seguito il medesimo percorso, che si trattasse di scegliere un Corso di Laurea, o di interrompere un’amicizia. Prima, un’infinità di notti insonni: devo buttarmi, no è una cazzata, e se poi mi pento di averlo fatto, e se invece mi pento di non averci nemmeno provato. Poi, la classica goccia che fa traboccare il vaso. Può essere una discussione, ma anche un consiglio illuminante. E allora sbam. La porta si chiude lasciando dall’altra parte tutto ciò che mi ha fatto del male. I miei dubbi spariscono all’improvviso. E io finalmente trovo il coraggio per rinunciare alle mie certezze, per accettare la confusione che deriva dal non saper cosa accadrà, perché so che ogni mio sforzo è indirizzato a un unico scopo: migliorare me stessa.
Se dovessi definire il mio modo di agire in un’unica parola, non avrei dubbi: creatività. Credo che sia la chiave per avere un’esistenza felice. Non si deve pero interpretare questo termine nella sua sola accezione pratica: sono creativo perché scrivo un libro, perché dipingo un quadro. No. A un livello più profondo, la creatività è uno stile di vita, è la capacità di trovare soluzioni inconsuete a problemi ricorrenti facendo tabula rasa di tutti gli schemi mentali, tutte le convinzioni limitanti, tutte le regole che ci sono state imposte come un dato di fatto ma che, nel momento in cui si cristallizzano nel nostro cervello, diventano una gabbia. Vivere in modo creativo significa rinunciare al meccanismo stimolo-risposta e imparare a vedere oltre ciò che è facile, comodo, a portata di mano, perché quelle risposte lì sono ormai obsolete, non ci daranno mai il salto di qualità che stiamo cercando. Sembra semplice, detto così. Però questo implica l’addentrarsi in una zona sconosciuta, rinunciare, per un solo istante, ad avere il controllo della situazione, lasciarsi alle spalle tutto ciò che è noioso, ma profondamente rassicurante. Ovvero, la nostra zona comfort.
Essere creativi significa uscire dalla propria zona comfort
Esiste un luogo, dentro il nostro cervello, nel quale ci sentiamo al sicuro. È il luogo in cui hanno sede le nostre abitudini, quelle forme-pensiero più dure a morire che ci stanno un po’ sulle palle, ma all’idea di rinunciarvi ci sembra quasi di tagliarci un braccio. Siamo tranquilli, lì, perché abbiamo il di tutto, non c’è il rischio di compiere errori. Quindi, cerchiamo di rimanerci il più a lungo possibile.
Ma qual è il prezzo da pagare per questa stabilità?
La risposta è semplice: il continuo permanere in una condizione neutra, se non addirittura di insoddisfazione. E non è ciò che meritiamo. Davvero. Noi possiamo scoprire una nuova versione di noi stessi, se lo vogliamo. Ma la pappa pronta non esiste, questo è appurato. Quindi, per arrivare alla verità, occorre un’unica soluzione. Bisogna spogliare la propria anima come se fosse una cipolla, e avere il coraggio di guardarla. Occorre domandarsi: “chi sono io? Cosa desidero?” e poi, una volta trovata la risposta, difendere la propria identità, la propria integrità senza paura di scottarsi.
La zona comfort dello scrittore
La maggior parte dei blocchi nascono da qui. Dall’incapacità di mettersi in gioco. Dall’assenza di creatività. Ci capita nella vita, quando non sappiamo andare oltre le nostre consuete risposte. E capita nella scrittura, quando rimaniamo agganciati a idee ormai obsolete che servono soltanto a giustificare le nostre ferite. Ci capita quando la nostra penna non riesce ad affrontare argomenti scomodi: la violenza, la malattia, il sesso. Soprattutto quest’ultimo. Noi, cresciuti a pane e cattolicesimo, abbiamo difficoltà a parlarne. E voi non potete nemmeno immaginare quanto rido, a volte, editando romanzi di autori che vorrebbero mostrarsi sopra le righe, ma inventano intricatissimi arzigogoli stilistici per evitare il termine “scopare”. A volte, c’è più intensità nell’estrazione di un molare che in una scena scritta con la pretesa di trasmettere passione. Ma perché, mi domando io. Perché ci sembra normale mandare a fanculo una persona per strada, e poi non siamo in grado di descrivere un orgasmo? Abbiamo paura che la zia ottantenne si scandalizzi e ci diseredi? Noi, in quanto autori, non dobbiamo offrire al lettore una versione edulcorata della vita, ma rappresentare il mondo per ciò che è, in tutta la sua verità. Se non ne siamo in grado, è molto meglio scrivere fiabe per bambini, o manuali d’istruzioni sulla ruota motrice.
Potrei trovare un centinaio di esempi come quelli citati qui sopra. La mente umana è unica. Ciascun autore ha le proprie paturnie, le proprie zone oscure. Quindi è difficile tirare fuori dal cilindro delle dimostrazioni universali. C’è una domanda, però, che ciascuno di noi può porsi per comprendere di quale materiale sono costruite le mura della sua gabbia. Una volta trovata la risposta, sarà in grado di capire come tirarsi fuori dalla zona comfort: cosa mi fa paura?
La soluzione si trova lì. Oltre la paura. Con riferimento agli esempi che ho appena menzionato un autore che racconta sempre la stessa storia nei secoli dei secoli potrebbe essere terrorizzato all’idea di lasciar andare il proprio passato, i rancori sui quali ha fondato la propria esistenza, perché questo creerebbe un vuoto dentro di lui, non avrebbe più scuse per giustificare il proprio dolore. Uno scrittore che ha paura a parlare di sesso, invece, potrebbe temere il giudizio dei lettori, perché si sa, per la società le persone per bene nemmeno ci pensano, a certe cose. Si schifano alla vista del sangue. E non dicono parolacce. Così, troviamo romanzi thriller da 500 pagine, con un poliziotto alcoolizzato che insegue un serial killer ma che, nonostante venga perculato da quest’ultimo più e più volte, non si fa scappare nemmeno un vaffanculo. Irrealistico, non trovate? Eppure esiste una falsa convinzione tale per cui il linguaggio raffinato è… pomposo, ecco. Ma la poesia, oggi, si è avvicinata al linguaggio comune, perché chiede di rappresentare la realtà. Fabrizio De André, di parolacce, nelle sue canzoni ne scriveva parecchie. Eppure è uno degli artisti più apprezzati dei nostri tempi. E lo è perché, lui, dalla zona comfort usciva senza timore, anche a costo di essere ridicolizzato, incompreso, e considerato un disadattato. Quindi, scegliete voi. Se volete essere come De André, oppure come Fabio Volo. Quest’ultimo vende, ma non dona nulla.
Complimenti per la questa “nuova” avventura, Chiara, e per il nuovo blog, è bellissimo!